Sette vizi per sette scrittori – Paolo Zardi e la superbia

Photo by Roberto Di Veglia

Si dice che tre sia il numero perfetto.

Su questo blog siamo in tre a portare avanti delle idee scribacchine corredate da immagini. Se uno ha una buona idea, gli altri lo seguono nel progetto. Per cui il “tre” è il numero perfetto per realizzare i nostri post.

Pesco un altro numero: sette.

Un numero da sempre magico, intriso di sacralità e con una ricchissima simbologia che lo connota fin dall’antichità.

Molte delle proprietà attribuite al sette risalgono addirittura all’astrologia babilonese che riconosceva sette pianeti e divideva il mese lunare in cicli di sette giorni, da qui l’origine della nostra settimana.

L’Antico Testamento utilizza sette nomi per indicare la terra e altrettanti per il cielo; secondo il libro dell’Apocalisse, la fine dei mondo sarà annunciata dalla rottura dei sette Sigilli, seguita dal suono di sette trombe per bocca dei sette Angeli, e infine dal versamento delle sette coppe dell’ira di Dio.

Nell’Ebraismo, il candelabro a sette luci, detto “Menorah”, è il simbolo della fede eternamente accesa; nel Corano, il mondo è sorretto da sette colonne poggiate sulle spalle di un gigante, a sua volta sostenuto da un’aquila, che posa su una balena che nuota nel Mare Eterno. Nel libro sacro dell’Induismo, sette erano gli illuminati del Veda dell’India.

Si possono comunque trovare tantissimi altri usi e modi di dire che ci riportano a questo numero.

Sette sono le note musicali, i colli e re di Roma,  i chakra. Come anche sette sono le proverbiali vite di un gatto o gli anni di sfortuna quando si rompe uno specchio. Insomma cosa possiamo aver pensato con questo numero?

Sette sono anche i vizi capitali.

Abbiamo quindi pensato (a dir la verità l’idea è di Calibano, quindi prendetevela con lui se non vi piace 🙂 )  di chiedere a uno scrittore di parlarci di un vizio attraverso sette domande. Il vizio di oggi è la superbia.

Da Wikipedia:

Nella dottrina morale cattolica la superbia è considerata il peccato peggiore tra i sette vizi capitali (Superbia, Avarizia, Lussuria, Invidia, Gola, Ira, Accidia), desideri ordinati verso lo spirito del male, cioè Satana, dai quali tutti i peccati traggono origine e che causano la morte dell’anima. Ai Vizi capitali sono contrapposte le tre Virtù teologali (Fede, Speranza e Carità) e le quattro Virtù cardinali (Giustizia, Fortezza, Temperanza, Prudenza). Il superbo tende a comportarsi in maniera malvagia perché ritiene di essere migliore degli altri. La superbia viene raffigurata pure da Dante nell’opera Divina Commedia come il leone, una delle tre fiere.

 

Il superbo ha una grande considerazione di sé. Spesso mi chiedo se per scrivere sia d’aiuto avere un’autostima così grande da sfociare in superbia. Che sia un pregio, anziché un difetto, credere in se stessi in modo eccessivo?

Se la vediamo da questo punto di vista non sembra più un vizio (e quindi una visione negativa) ma bensì un qualcosa in più per emergere. Tornando al nostro post, introduco con piacere lo scrittore Paolo Zardi che ho voluto fortemente perché sempre molto disponibile a partecipare al nostro blog. Con lui parte il progetto pensato da Calibano: sette vizi per sette scrittori. Ringrazio lui per l’idea e lo sviluppo di tale progetto, Roberto per le foto che fanno da cornice al post e per ultimo (Last, but not least) Paolo Zardi per le risposte.

 

LA SUPERBIA

  • Che rapporto hai con la superbia?

 

Provengo da una famiglia che pur essendo sostanzialmente atea, presenta, suo malgrado, una forte impronta cattolica. Mio padre è nato in un paese che, prima della Seconda guerra mondiale, viveva immerso in una religiosità quasi medioevale. I vizi, quindi, specialmente quelli capitali, non sono mai stati ben visti; e la superbia era forse considerata come il vizio più riprovevole. Ricordo un episodio buffo: a casa nostra, per un certo periodo, ha vissuto una zia di mio padre, una donna piccolissima nata nel 1896; devota alla Madonna, si faceva il segno della croce prima dei pasti e ogni tanto la sentivo pregare in camera sua. Era anche appassionata di telefilm, e nonostante avesse superato da un po’ gli ottant’anni, non si perdeva un episodio di Happy Days. Le piacevano tutti i personaggi, tranne uno: Fonzie, che lei chiama “il superbo. Io avevo poco più di otto anni, e Fonzie era il mio mito; però qualcuno più saggio di me mi stava mettendo in guardia.

  • Pensi che possa essere comunque d’aiuto darti quella convinzione in più per scrivere una storia?

In questi ultimi anni ho avuto modo di conoscere diverse persone con una forte passione per la scrittura. Alcune di queste scrivono molto, e mandano le loro opere in giro, le spediscono a riviste letterarie, chiedono pareri, contattano editori e talvolta pubblicano; altre, invece, sono estremamente critiche verso se stesse, e ritengono che nulla di quello che producono che valga la pena di essere letto: quando chiedo loro di mandarmi qualcosa, mi rispondono dicendo che le cose che scrivono fanno schifo, e devo quindi insistere parecchio per convincerli a lasciarsi un po’ andare. La cosa interessante è che, dal punto di vista qualitativo, questi due gruppi immaginari non sono poi così diversi: i superbi, però, vanno avanti, mentre quelli che ritengono di non avere qualità, quelli che si mortificano, che continuano a ripetersi di non valere nulla, rimangono indietro. Direi quindi che un pizzico di superbia, intesa come sicurezza nelle proprie capacità, come sana spavalderia, possa aiutare. D’altra parte, Fonzie non era propriamente un adone.

  •  Come ti sei sentito la prima volta che sei stato pubblicato?

Ci sono state tante prime volte, a dire il vero: la prima volta che qualcuno ha commentato un mio racconto su un blog, la prima volta che ho vinto un concorso di racconti, la prima volta che una mia storia è stata inserita in un’antologia, la mia prima raccolta, il mio primo romanzo… Queste piccole tappe sono iniezioni di autostima che fanno sicuramente bene. Non so, però, se tecnicamente si possa parlare di superbia: credo che in queste cose sia solleticata soprattutto la vanità. In salotto, nella libreria, ho un angolo con i miei libri – quelli scritti tutti da me, e quelli in cui c’è un mio racconto dentro. Li ho contati, sono 29. Ecco, questo è un piccolo, innocente atto di superbia, che mi perdono volentieri.

  • Quali sono secondo degli scrittori superbi nel senso buono del termine, cioè superiori, maestri?

I due autori che amo di più, e cioè Philip Roth e Vladimir Nabokov, sono straordinariamente superbi. Nabokov, ad esempio, ha passato la seconda metà della sua vita a spiegare al resto del mondo i motivi per i quali doveva essere considerato un genio: aveva buoni motivi, per farlo, ma bisogna ammettere che agli occhi un po’ cattolici della stragrande maggioranza dei suoi lettori questo suo atteggiamento non era molto apprezzato.

Roth, invece, amava parlare dei suoi libri. Proprio il mese scorso è uscita, in Italia, una raccolta di suoi saggi, la cui prima parte è la traduzione di un’opera del 1973, che si intitolava “Reading myself and others” dove, a onore del vero, è decisamente preponderante la parte dedicata al myself. In uno di questi saggi, Roth racconta di essere intimamente convinto che i critici letterari che non comprendono la sua grandezza stiano clamorosamente sbagliando; e aggiunge che i due o tre premi Nobel che ha avuto modo di conoscere durante la sua vita la pensano come lui, tanto che sarebbero ben felici di vedere i proprio detrattori sfilare lungo la Fifth Avenue dentro una gabbia, mentre la gente tira loro uova marce. Non c’è dubbio che Roth sia un superbo, e che non faccia nulla per nasconderlo.

  • Quale libro, se ce n’è uno, in cui viene affrontato il tema della superbia ti ha convinto o deluso?

Uno dei libri più interessanti, dal punto di vista dei vizi, è “L’informazione” di Martin Amis, un libro del 1995 nel quale uno scrittore fallito prova un’indicibile invidia verso un caro amico, a suo parere del tutto privo di talento, che invece ha sfondato con un libro che parla di una fattoria piena di amore. Sebbene il punto centrale di questo romanzo sia, appunto, l’invidia del protagonista, bisogna ammettere che questa si nutre, e trova linfa vitale per crescere e diventare gigantesca, grazie alla controllata superbia dell’autore di successo, che non perde occasione di mettersi in mostra: succede, ad esempio, che dopo aver dichiarato in un’intervista che il suo lavoro di scrittura assomiglia a quello di un falegname che lavora pazientemente il legno per tirarne fuori sedie e sgabelli, si faccia costruire un laboratorio di falegnameria in una delle tante stanze della sua nuova villa, e che qui riceva amici e giornalisti. La bellezza della superbia è che si esprime in mille modi diversi, raggiungendo, talvolta, le vette del genio.

  • Pensi che possa essere considerato ancora un vizio, un peccato capitale, uno di quelli che Aristotele definì gli “abiti del male”?

Qui non so come rispondere…

 

  • Quali sono secondo te oggi i peccati capitali, i mali che affliggono la nostra società, se ci sono?

Viviamo in un’epoca in cui la lussuria, la gola, l’ira, e perfino la superbia, non rappresentano più un problema per nessuno; e anzi, questi vizi sono diventati parte integrante del motore che manda avanti l’economia del mondo. Dopo millenni di penuria di ogni cosa, la strabordante abbondanza di tutto non richiede più un approccio parsimonioso e controllato verso i piaceri che si possono cogliere. La morale, d’altra parte, è sempre finalizzata a garantire la realizzazione di obiettivi specifici di una società, e in un mondo in cui la crescita del PIL è il principale metro di misura dei governi, i vizi capitali, con le loro limitazioni e i divieti, sono diventati una zavorra controproducente.

Come nazione, mangiamo e spendiamo quanto un continente intero; e poi, con la pancia piena, ci lasciamo travolgere dall’ira verso chi cerca di raggiungere questa specie di paese dell’eterna cuccagna, e gestiamo con una sistematica accidia le difficoltà che questa migrazione comporta; e poi ci vantiamo di essere un paese sviluppato.

Abbiamo quindi dovuto inventare nuovi mali, nuovi peccati capitali: la parsimonia, la responsabilità verso le generazioni future, la tolleranza verso il diverso, l’accoglienza, il tentativo di superare le discriminazioni. La bontà è diventata buonismo, e chi ne soffre cerca in tutti i modi di togliersi di dosso questa etichetta. È un’epoca curiosa, la nostra. Mia zia, ne sono convinto, avrebbe fatto fatica a capirla.

 

 

Paolo Zardi (1970) ha esordito nel 2008 con un racconto nella raccolta “Giovani Cosmetici” curata da Giulia Belloni. Ha pubblicato i romanzi “La felicità esiste” (Alet, 2012), “XXI secolo” (Neo, 2015) e “La Passione secondo Matteo” (Neo, 2017), le raccolte di racconti “Antropometria” (Neo, 2010) e “Il giorno che diventammo umani” (Neo, 2013), e i romanzi brevi “Il signor Bovary” (Intermezzi, 2014), “Il principe piccolo” (Feltrinelli Zoom, 2015) e “La nuova bellezza” (Feltrinelli Zoom, 2016). Il suo romanzo “XXI secolo” è stato tra i 12 finalisti del Premio Strega 2015 ed è stato tradotto in spagnolo nel 2016.

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