Tra il destino e il chirurgo

Photo by Roberto Di Veglia

Tra il destino e il chirurgo è più imprevedibile il destino, quindi confido nel chirurgo.

Sono tesa dietro il lenzuolo verde che separa il mio mondo da quello dello staff medico. Ogni tanto la mia mano destra viene presa e stretta per darmi forza. Non devo spingere, né fare altro, solo aspettare. Aspettare che mio figlio venga alla luce. La mia pancia sembra ondulare come se un maremoto si fosse scatenato dentro di me. Per quanto non senta dolore, provo una sensazione di svuotamento. Cosa succede? Non sono pronta a tutto questo. Non posso fare niente. Solo chiudere gli occhi e sperare che il chirurgo faccia presto. Un cesareo d’urgenza di sabato sera è quanto di più brutto  possa esserci, specie per una primipara. Lo percepisco dalla voglia di far presto, di tirar fuori il bambino di farlo nascere. Le acque si sono rotte, il bambino ha il cordone avvinghiato al collo e il parto non è sufficientemente aperto. Il respiro è asmatico. L’infermiera o almeno credo sia lei, mi accarezza la fronte e mi domanda del perché respiri così.

“Non lo so, fate presto” riesco a dire.

Il maremoto è terminato e si ode un canto di un pirata che è sfuggito alla tempesta. Mio figlio ha solcato il mare sotto un naufragio. È stato salvato prima che affogasse. Il destino non è crudele certe volte, non ora, non subito. Il chirurgo è una macchia verde spruzzata di sangue. Si avvicina e mi saluta congratulandomi per l’avvenuta nascita. Vorrei dire qualcosa, fare lo stesso, esternare che è lui l’artefice di tale miracolo. Io non ho fatto nulla se non chiudere gli occhi per non lasciarmi abbagliare dalle luci della sala operatoria. Mi sono addormentata a piccoli tratti; la stanchezza si adagia al mio corpo deforme da nove mesi di gravidanza. Non mi sono mai piaciuta col pancione, solo Carlo mi ha sopportato in questi mesi con le mie lamentele,  sbalzi d’umore e dolori fisici. Mio figlio è solo un ricordo nelle mie orecchie. L’ho visto di sfuggita prima che lo portassero via. Sembra tutto mio padre e io già lo odio per questo. Il chirurgo ha salvato mio figlio, non me.

Ce l’ho in braccio: come urla! Se solo fossi capace di infilare il mio capezzolo nella sua bocca, smetterebbe come tutti i neonati. E invece mio figlio urla. Vado nel panico e chiedo alla mia vicina di letto di suonare il campanello per chiamare le infermiere.

“Chi ha chiamato?”

“Lei.”

Lei sarei io. Sono l’unica che non riesce ad allattare il proprio figlio. Tutte brave, tutte esperte, l’unica imbranata. L’infermiera mi guarda con il viso stanco ma paziente. Le sue occhiaie sono al limite dell’umano e anch’io ho una faccia stravolta. Mi capisce, lei l’ha spiegato tante volte, non sono la prima a cui deve ripetere e far vedere come si allatta, no? E allora perché mi sento così inadeguata?

“Se vuoi rimango qui con te finché non finisci di allattare.”

Avrei voluto sentire queste parole ma l’ostetrica è dovuta andare per un’urgenza. Non sono che un peso, mi sento così sola, triste, insicura. Ormai qui ho fatto tutto: ho partorito.  Dovrei solo star zitta e buona occupandomi di mio figlio come se già non bastassero i dolori postumi del cesareo. L’anestesista con quella siringa ha sospeso il dolore: è ritardante un po’ come me che fatico a lasciar andare l’istinto materno. Non ce l’ho. Perché proprio io? Non è così che avevo immaginato la nascita di un figlio. Tra poco arriverà a farmi visita tutto il parentato. Vorrei che ci fosse Carlo e invece arriverà stasera in ospedale. Siamo due ritardatari nel diventare due genitori.

Dieci ore dopo aver partorito sembro più stanca di prima. E anche i dolori cominciano a farsi sentire. Il cesareo è un dolore a rilascio lento e io non riesco che a pensare alla mia inadeguatezza. Mi fa male tutto, mi sento stanca, appiccicosa di latte, sporca di sangue: mi sento orribile come mai in vita mia. È questo diventare madre? Non riesco a trovare una sensazione bella, neanche Carlo è riuscito a calmarmi. Tutt’altro. Lui coccola nostro figlio e a me lo lascia quando urla e non capisce che non lo sopporto più specie quando tira fuori quella voce sgraziata.

“Prova a mangiare qualcosa.”

“Non ho fame. Sei venuto per farmi la predica?”

“Sono venuto per noi tre. L’ostetrica dice di avere pazienza che Simone si attaccherà bene. Stai tranquilla e mangia.”

“Mangia, mangia, mangia. Solo questo devo fare. E io non ho nemmeno fame.”

“Devi mangiare per te e per nostro figlio.”

“Non lo voglio, tienitelo pure. È tutto tuo. Io non volevo un bambino che urlasse per tutto il giorno. Fallo mangiare tu: io non sono capace.”

“Non dire sciocchezze: sei la madre.”

“Una madre? Non voglio essere madre. Ci rinuncio. Simone non mi vuole.”

“Devo andare. Riposati adesso. Mangerai dopo. Vedrai che ti tornerà l’appetito.”

“Hai sempre la risposta giusta?”

Carlo non insiste. Il mio nervosismo è ai massimi livelli e lui si limita a un bacio sulla guancia mentre sono su un fianco girata di spalle. Non lo capisce come sto.

Piango. La mia camicia da notte puzza di latte stantio. Provo ad alzarmi. Due ore fa l’ostetrica mi ha aiutato a tirarmi su. Scendere dal letto dopo un cesareo e come se ti strappassero la pelle a morsi. Mi sono appoggiata al suo braccio e ho chiuso gli occhi dal dolore. Appena li riapro vedo il volto della ragazza che dorme davanti al mio letto avvolta da un tubo morbido. Uno di quei salami antispiffero che si mettono per non far passare il freddo d’inverno da sotto le porte. Una testa di capelli e crosta lattea le copre il seno. La luce entra a tre quarti nel mezzo della stanza: mi tocco la pancia e vorrei non aver mai partorito. Sono più sgonfia nell’addome; i seni sono macigni che trapano la stoffa lilla a fantasia floreale della camicia da notte. Credo che mia madre l’abbia comprata, assieme alla vestaglia e ai mutandoni al mercato. Di venerdì, chissà di quale mese. Probabilmente poco dopo che le ho detto di aspettare un figlio.

Simone mi guarda. Dopo ventiquattro ore dorme beato. Sarà stanco di piangere. Devo andare in bagno e poi dormirò anch’io. C’è un silenzio in questo momento che il mio trascinare le pantofole mi fa capire quanto sia fastidioso ogni sussurro, respiro, vibrazione dei quattro telefoni di quattro donne in uno stanzone d’ospedale. La mia vicina mi osserva alzando appena il viso in cui le occhiaie marcano ore di travaglio. Ho i piedi gonfi e non posso farci nulla se non riesco a tirare su i piedi. Trascino il mio corpo fino in bagno convinta che la vicina di letto mi abbia maledetto per averla svegliata. Qui tutto è amplificato, persino i gesti. Per vestirsi, per lavarsi,  per mangiare, per poppare. Come se non bastasse il disagio di ogni movimento lento, impacciato e nuovo, ti fissano infermieri, dottori e parenti. Come se non avessero mai visto un seno, come se tu fossi la “sconcia” a mostrarti con le tette di fuori. Sempre fuori, scollacciata. Simone non collabora e io mi dimeno fregandomene di avere una tetta per volta fuori dal reggiseno. Non c’è niente di erotico, fa solo schifo allattare. Mi fa male sentire dei seni così duri e non perché sia eccitata. Le punte dei capezzoli dritti come missili un po’ come quando facevo l’amore con Carlo ma il piacere non è lo stesso. Se oserà toccarmi di nuovo, lo caccerò. Non voglio un altro figlio. A dirla tutto non voglio neanche questo di figlio.

Apro gli occhi e la donna delle pulizie esce dalla stanza portandosi via gli odori delle mamme. Non so come abbia fatto a pulire con noi dentro. Dalla stanchezza non mi sono accorta del suo lavoro. La stanza profuma di nuovo, il pavimento è bagnato e lucido. Aspetto ancora un po’, ma ho bisogno di andare in bagno. Ho fame e mi scappa la pipì. Mi sento bagnata. Scendo dal letto dalla parte opposta alle mie pantofole: sono color panna, basse tipo quelle per lucidare i pavimenti. A casa le butterò. Da ieri sera, a forza di passeggiare per il corridoio, sono già consumate. Prendo al volo il beauty e mi dirigo in bagno: non ce la faccio più a trattenermi.

Tiro su la camicia da notte e mi sento una salsiccia. Il mio corpo in basso è un insaccato avvolto nella rete delle mutande igieniche. Un rettangolo assorbe il mio sangue di madre che ancora viene abbondante. Il mio ciclo da parto. Un’emorragia che mi ferisce. Cambio l’assorbente lungo, fastidioso ma pulito e butto l’altro incartandolo in tanti strati di carta igienica. Odoro di neutro adesso. Il sapone neutralizza le mie mani, faccia e collo. Con lo stesso detergente  dovrei lavare le mie parti intime e i piedi. La doccia potrò farla più avanti.

Oggi Simone mi ha calmato. Non so perché ma è riuscito a infilare la sua bocca nel mio capezzolo. Ciuccia e io piango di gioia, mi rilasso e il mio seno è il rubinetto che non perde più. Simone ha aggiustato la perdita di quel latte marcio, di quel latte inutile se nessuno se ne abbevera. Sorrido alle altre e mi emoziono. Non mi nascondo, le lacrime scendono; non mi sono nascosta neanche quando ho urlato a mezza bocca a Carlo, quando ho rifiutato una mano dall’ostetrica o se sono stata zitta mentre tutte mi hanno dato un consiglio. È il terzo giorno che vivo con loro la maternità ma solo ora me la sto godendo. Sono una madre perché Simone ciuccia il latte da me. Sono svuotata di ogni paura; il latte non è che il tramite fra gioia e novità, fra la paura e il passato. Niente sarà più uguale a tre giorni fa e ora lo realizzo. Simone dorme, voglio tenermelo un po’ in braccio prima di metterlo a riposare nella culla.

“Ciao amore. Come stai?”

“Carlo, amore mio. Sto bene.”

“Si vede. E Simone dorme tranquillo.”

“Lo sai che sono riuscita ad allattarlo?”

“Lo vedi? Bastava avere pazienza.”

“Me lo dai un bacio?”

Carlo è un uomo speciale. Anche ora me lo dimostra. Dopo le coccole, mi ha rassicurato che non mi lascerà. Dovrei credergli: ha riconosciuto anche il bambino. E allora perché sento di nuovo questo morso allo stomaco? Mia nonna mi ha sempre detto che fossi una veggente. Dentro di me so già cosa succederà e non mi piace. Andrà a finire male e quello che sto vivendo finirà. Carlo avrà un figlio finalmente. La sua compagna lo perdonerà e dovrà prendersi cura di Simone. Sento che andrà così. Simone l’ho datime alla luce ma io qui spengerò ogni pulsione. Quel picco di felicità è sceso quando Sofia, la mia vicina di letto, mi ha confessato di aver dato un goccio del suo latte a mio figlio. Simone ha imparato a nutrirsi da un’estranea. Crescerà con un’estranea e suo padre. Io sono morta il giorno che ho dato la vita a mio figlio. Mi odio per questo, ma non posso farci nulla. Domani sarei dovuta uscire dall’ospedale, nel quarto giorno di vita di Simone: un giorno più. La domenica non conta come giorno di permanenza in ospedale. Domani Simone non avrà più sua madre.

Mettere al mondo un figlio non ti cura dalla depressione, non garantisce l’amore fra un uomo e una donna, ma soprattutto non si diventa madre subito dopo aver partorito. Io non saprò mai cosa significa tutto ciò è non lo voglio neanche sapere. Ed è per questo che appena le altre si  addormenteranno, io andrò in bagno, mi cambierò l’assorbente, mi laverò per completo, indosserò la camicia da notte pulita perché non mi va che mi trovino scomposta. Il beauty lo lascerò aperto sul lavandino con un piccolo foglio d’addio. La finestra l”aprirò appena mi sentirò pronta. Sono pronta. Non credo che mi salverò: è alto da qui. Se dovessi salvarmi, qualche dottore proverà a rianimarmi ma io sarò morta comunque e segnata da un marchio di pazza e depressa.

Una risposta a “Tra il destino e il chirurgo”

  1. Che tristezza, Tiziana!
    La depressione è terribile e quella post partum anche peggio, credo.
    Bel racconto anche se fa male leggerlo. E se fa male vuol dire che ci sei riuscita benissimo. 🙂

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