Occhi di peluche – piccoli diamanti

I tuoi occhi sono finti, occhi di peluche, pulsanti di un ascensore; vorrei poterli sfiorare per vedere dove portano.

Viaggiano gli occhi. Sfrecciano lungo i finestrini.

Viaggiano nel tempo.

Mentre tra prati e nuvole, il monotono rumore del treno ci ipnotizza.

Il treno ha delle fauci enormi che risucchiano i binari, con un ritmo veloce punta verso il futuro. Ha fame, forse vuole mangiarselo il futuro.

Io no.

Io sono intento a inghiottire la rabbia, la mia rabbia.

Il suo peso specifico è veramente basso, non scende, non decanta, ma sale in alto, nel punto più alto della mia testa. È come un vortice che spinge per rompere la calotta cranica.

Alcune volte esplode e porta con sé calore e distruzione.

Come sono forti gli odori su un treno. Pungenti direbbe qualcuno. Puzze dice il mio fratellino. I bambini sono sempre sinceri, si sa!

Poi squilla il telefono.

Ti vergogni un po’ a parlare, ma i sobbalzi fanno cadere la linea. Cosi cadono i pensieri, cadono i silenzi.

Allora provo a chiacchierare con te.

Hai notato lo sguardo della nostra insegnante di danza? Racconta di luoghi a me ignoti. Io li rincorro. Provo ad inseguirli con in miei passi incerti sul parquet. Cerco di disegnarli con il mio corpo, ma svaniscono, come bolle di sapone.

Mi sorridi e mi chiedi perché gli uomini fuggono.

Forse perché passa un treno e ci salgono sopra, come se entrassero in un poster. Un viaggio per una destinazione esotica, alla ricerca del sole. Gli uomini cercano sempre il sole, anche a rischio di bruciarsi.

Anche io sono fuggito.

Non ero sicuro e mi voltavo in continuazione.

Poi ti accorgi di essere solo.

Ti guardi intorno e nel grigio della solitudine pensi che è assolutamente normale cercare il sole, anche a Milano.

La rabbia dicevamo.

La rabbia te la porti appresso per sempre. Lei abita dentro di te, una piccola fiamma che certe volte divampa, quando meno te lo aspetti. All’improvviso, quando tutto è perfetto, quando ogni cosa è posizionata al suo posto. Ecco un piccolo refolo, un leggero venticello, un soffio dispettoso e UOOMM… la fiamma si gonfia fino a diventare un incendio e del tuo ordine non rimane che cenere. Io non so come è successo, quando me l’hanno messa dentro quella piccola fiamma. Non so neanche se è stato qualcuno, se posso prendermela con qualcuno.

Parlami invece di Milano. Raccontami come si fa a conoscerla. Certe volte ti sembra amica, ti sorride, ma poi torna diffidente. Un giorno ti dà del tu e il giorno dopo di nuovo del lei.

Io, nato nella periferia di Roma, da quando sono partito dalla mia città, sono un po’ morto.

Cosi dicono. Partire e un po’ morire.

E tornare a Roma è come prolungare un’agonia.

Hai la sensazione di non appartenenza, la percezione di non identità. L’esperienza di estraneità ad ogni posto.

Ti muovi come invisibile, i pensieri spaziano incerti, senza ordine, flebili e anemici, forse sterili.

– Hai fame?

Cappuccino e brioche nel vagone bar. Li assaporiamo ridendo in piedi e tremolanti. Ti guardo. Ti trasformi in un fumetto, diventi una bimba ballerina. Le gambe dondolano in sogni lontani, i miei stessi sogni. Sarà per quello che mi sembra di sentire di nuovo tra le mani il mio vecchio bastone di bambù. Sono di nuovo un fanciullo e mi lancio in un assolo di Tip-tap.

– Biglietto prego.

La voce del controllore come una brusca frenata del treno mi riporta alla realtà. Poi viene il tempo di una sigaretta fumata di nascosto. Gli anelli di fumo riportano veloci i dilemmi odierni. Sembri immersa nel mare di un recente passato a scandagliare gli abissi.

Il treno corre veloce.

Le pagine di un libro scorrono veloci.

I mie pensieri vanno un po’ più lenti, ma tutti si arriva a Roma.

Roma dolce incanto, il cielo è azzurro e l’aria tiepida.

Ti viene incontro e ti sussurra parole antiche, le sue piazze, le sue vie, i suoi mestieri.

Roma non ti conoscevo prima di abbandonarti. Senti che frastuono e quante macchine.

Roma sei una gran dama, ma di una nobiltà volgare, eppure così attraente nella tua decadenza eterna.

Sei un gigante sonnolente, un vulcano pronto a eruttare tutte le anime che ti han fatto grande.

Ogni cosa sommergi, gettandola nell’oblio. Ogni cosa correggi con la tua memoria.

Ma non c’è tempo per la città, il teatro ci attende.

Il palco, con la polvere delle sue assi, nostra droga, nostro inferno e paradiso, nostro miraggio, nostro specchio. Polvere di teatro da sniffare.

Mentre si prova c’è lo spazio di qualche abbraccio, di qualche leggero rimpianto.

I volti dei vecchi amici tutti intorno, i loro sorrisi.

Intanto i muscoli si scaldano, i tendini si allungano e i pensieri si acquietano.

Il fiume: la nostra coreografia, ci trascina con sé. Mi perdo nelle sue rapide, nei suoi raschi, nelle buche. Divento ritmo, battito. Percepisco le cascate e le piccole onde che si infrangono su di me, su i ricordi. I miei salti, per liberarmi da quelle catene. I tuoi giri, che come mulinelli mi attraggono e riportano verso il fondo. La Musica, il silenzio. La Musica, il Silenzio. Il Silenzio.

Non c’è frastuono più forte del silenzio.

Le prove sono finite.

Ora si fa sul serio, dietro il sipario sono pronto, sento il suono del Sitar e delle Tabla, sento il calore.

Una goccia di sudore scende lungo la mia schiena attraversa le vecchie amicizie fino ad arrivare ai giorni trascorsi con lei. La mia rabbia.

Fermo i brividi, i sentimenti, stringo la gola ed entro.

Entro sul palco e trovo il tuo sguardo stupito e distante.

Cazzo! Ho sbagliato.

Ho sbagliato, ma la luce non si spegne e la musica non si ferma. Il fiume va.

Il fiume va con la sua armonia che ti risuona dentro, scorre e ti riempie, non è impetuoso ma forte.

Tra le sue onde si danza. Lei ora non c’è più, ma io finalmente vibro con te. Non ci sono più meandri a nascondere la via, tutto è festa.

Si balla. Il mio essere si libera sino a diventare acqua, sino a sentire la tua acqua, sino a far nascere una piena. Un fiume in piena. Denso delle nostre energie che esplodono in gesti potenti. I nostri corpi dialogano in uno scambio intenso, le figure si espandono in movimenti tribali. È gioia piena la nostra e finalmente si somma a quella degli applausi.

Ancora li sento risuonare il giorno dopo, quando mi sveglio.

Ti guardo. Tenera e raggomitolata, i tuoi capelli scompigliati sembrano le onde del nostro fiume.

Roma ti lascio di nuovo.

Vorrei poter parlare ancora con te.

Vorrei raccontarti qualcosa di me, ma non c’è mai niente, di veramente importante da dire. Spesso le parole non hanno sapore, come gli spaghetti al sugo, che sul treno del ritorno stiamo mangiando.

La stazione di Milano con il suo acciaio si affaccia.

Rimane il tempo dei saluti e ognuno andrà per la sua strada.

Rimane la danza.

Guardo ancora i tuoi occhi.

E i tuoi occhi sono veri adesso! Come piccoli diamanti brillano.

Come il sole. Come il sole a Milano.

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