L’albero

data 7 dicembre

L’ALBERO

Paolo Costantini

L’anno solare sta all’apparato digerente come le Feste stanno al colon. Dopo undici mesi senza intoppi, ecco questa inesorabile palude di materiale putrescente e puzzolente che si accalca verso lo scolo; questa porzione malata del mio spazio-tempo, che vorrei tagliar via come un chirurgo farebbe con un tumore intestinale. Vorrei che uno fra le migliaia di battiti di ciglia autunnali iniziasse un giorno di fine novembre e finisse non prima del 7 gennaio.
Anni fa riuscii finalmente a concretizzare questo sogno di chirurgia astrale, sia pure in forma attenuata: una ventina di giorni di vacanza in un’isola sperduta, lontano da luminarie alberi addobbati e pacchi regalo depositati là sotto, panettoni pandori panforti pan-tutto-il-resto, cene di San Silvestro, botti di Capodanno e calze della Befana.
L’ultimo giorno di lavoro iniziò come tutti gli altri. Avevo attraversato il parco quasi senza rendermene conto, a testa bassa, auricolari traboccanti musica classica, sguardo ipnotizzato dall’allarga stringi allarga stringi allarga stringi delle losanghe a mattoncini rossi intarsiati nel piastrellato grigio del vialetto. Tranquillo, con i miei soliti dieci minuti di anticipo, stavo sbucando sul marciapiede del viale quando un autobus mi sfrecciò davanti. Riuscii appena a leggere il numero sul display della fiancata: era il 6, proprio quello che dovevo prendere. Vista da dietro, la vettura pareva una maschera ghignante che mi faceva ciao ciao con un bel pennacchio di fumo nero.
La prima sensazione non fu la normale (per uno come me), sconfinata vergogna per questo sverginamento idiota (in anni di studio e lavoro non avevo mai perso l’autobus), ma la tagliente consapevolezza di qualcosa che non andava. Convenni con me stesso che ero uscito di casa alla solita ora, certificata dal segnale orario radio; che il gran freddo mi aveva fatto camminare più spedito del solito; e conclusi inequivocabilmente che dovevo avere almeno dieci minuti di anticipo sul bus, che a quella fermata transitava alle 6.51. L’orologio che avevo al polso segnava le 6.52. Impietrito, pensai a un ritardo della corsa precedente oppure a un’improvvisa modifica agli orari; poteva però trattarsi di un guasto al mio orologio. Niente di tutto questo. Stando alla tabella appesa alla palina della fermata, gli orari erano rimasti immutati e quella delle 6.51 era la prima corsa della giornata. L’orologio del cellulare e quello del portatile, che aprii sedendomi su un muretto gelido, concordavano sulle 6.53, scattate da qualche secondo.
L’universo sembrava essersi preso gioco di me, depennando dieci minuti dalla mia esistenza. Era proprio la chirurgia astrale dei miei sogni. Dovevo ridere? Oppure indignarmi per questo sopruso cosmico? O più costruttivamente, preoccuparmi per la mia salute mentale? Quasi a rafforzare quest’ultima ipotesi, mi ritrovai a camminare sul vialetto senza sapere come e perché, a testa bassa, sguardo fisso al motivo ipnotico del selciato. Mi fermai e alzai gli occhi.
Per descrivere quello che accadde in quel momento, utilizzai dentro di me, forse per la prima volta in vita mia, la parola “miracolo” senza nessuna riserva o ironia scettica. Il mondo esterno si insinuò a forza nella mia mente, come aria che penetra in un pacchetto sottovuoto al primo taglio di forbici. Incantato, spensi subito la radio e tolsi gli auricolari. Il cosmo sembrava essere stato creato poco prima. La brina copriva tutto – piante, aiuole, panchine, pista ciclabile, giochi per bambini – come un primordiale cellofan protettivo non ancora strappato via. A rovinare tutto, un abetino con indosso palline anni ’70 e qualche giro di corda luminosa lampeggiante. Distolsi lo sguardo, schifato. Tutti i paradisi terrestri hanno le loro zone d’ombra e i loro serpenti.
L’istinto matematico mi spinse verso un grande albero dalla chioma elegantissima. Era il più bel frattale vivente che avessi mai visto, l’ennesima dimostrazione che il mondo, come diceva Galileo, è geometria incarnata. Il tronco originava i rami, a loro volta padri di rametti e nonni di ramettini in una progressione potenzialmente infinita di pronipoti simili all’intera pianta. Conformazione analoga a quella del cavolfiore romano, indiscusso campione di estetica sul banco di frutta e verdura: un cono bitorzoluto composto da escrescenze coniche di identica struttura, figlie costruite a immagine e somiglianza del padre.
Mi avvicinai. La corteccia era incavata e rossastra come quella delle sequoie. I rami si muovevano al vento, erano braccia rivolte al cielo, tentacoli protettivi che mi attiravano. Sullo sfondo, nubi incendiate dal sole che si preparava a venire al mondo. Di colpo l’albero sembrò aggredito dal fuoco. I rami si scossero per una folata, ma fu come se li avesse agitati lui stesso per invocare aiuto.
Feci un passo, e il vento cessò. Fu come entrare in un ambiente caldo, accogliente, una stanza con un caminetto acceso. Stupefatto, tornai indietro come in una moviola e mi ritrovai nel vento e nel gelo. Di nuovo avanti: caldo e aria immobile. Allargai le braccia, mi spostai qua e là, camminai a braccia aperte lungo tutta la proiezione della chioma sul terreno. Chi mi avesse visto mi avrebbe preso per un pazzo che finge di volare; nella migliore delle ipotesi, avrebbe pensato a un bambino. E stavo reagendo proprio come un bambino, con quello stupore misto a spavento e curiosità che i piccoli riservano alle cose ignote.
Avevo accertato l’esistenza di una parete incorporea che circondava la pianta, un immaginario cilindro trasparente avvolto attorno alla chioma. Pura follia materializzata, da indagare a fondo. Mi avvicinai al tronco. Esitai, sfiorai la corteccia con un polpastrello tremante, appoggiai la mano: legno gelido, inerte.
Subito dopo udii un grido, accompagnato da bagliori rosso fuoco. Ritirai la mano terrorizzato e tutto scomparve di botto.
Mi ripresi e toccai un altro punto del tronco, poi un altro ancora: stesso risultato. Constatai che le allucinazioni si riproducevano dopo circa due secondi dal contatto con ogni parte del tronco e delle radici sporgenti dal terreno. Non si trattava dunque del mio io alterato, ma di un fenomeno indotto da lui, l’albero; proprio da lui. Era un albero psicotropo.
Non potevo andarmene così. Dovevo approfondire. La ragione poteva, e doveva, averla vinta. Mi feci coraggio e calcai la mano sul tronco, intenzionato a tenercela a lungo. Fu come se fossi finito in un vulcano: masse infuocate in movimento, fiamme, sfolgorii, e di nuovo l’urlo. Straziante, persistente, plausibile colonna sonora di un film sull’inferno dantesco. Non riuscii a sopportare l’impatto emotivo e dopo poco ritirai la mano.
Ogni analisi razionale si rivelava impraticabile. Mi sentii sconfitto. Mi voltai per andarmene e vidi una signora anziana, circondata da uno stuolo di gatti miagolanti, che stava venendo verso di me. Piccola, ondeggiante, portava due borse di paglia sfilacciata, una per braccio. Oltrepassò come se niente fosse la parete invisibile.
– Buongiorno, giovanotto!
– Da una delle borse l’anziana tirò fuori una pentola e iniziò a riempire con una mistura scura, forse frattaglie cotte, una delle ciotole vuote che – me ne rendevo conto solo in quel momento – erano posate vicino al tronco. Poi mi indicò l’altra borsa, posata lì accanto:
– Che fai lì impalato? Sistema i croccantini e leviamoci presto da questo ventaccio. Come ti chiami?
Vento? Non sentivo un filo d’aria e avevo caldo, tant’è che mi ero tolto il giaccone.
– Pier Giorgio. – Tirai fuori una scatola di croccantini, mi chinai e la versai in una delle ciotole.
– Hai un aspetto intelligente, sai? Che lavoro fai?
– Ricerca scientifica. Programmo i computer di un laboratorio.
– Lo dicevo io che hai una gran testa! Ma ti senti bene? Hai una faccia, mamma mia!
– Ho dormito male.
– E ti sei fermato proprio qui sotto? Occhio! I giovani, specie se carini come te, devono stare attenti.
– Attenti a cosa?
– Alla strega! Oggi è il 21 dicembre.
Sobbalzai, sentii un brivido sulla schiena. Mi alzai fingendo disinvoltura.
– La strega?
L’anziana aveva smesso di armeggiare e mi guardava torcendo la testa. Mi scrutava con un occhio semichiuso e una strana smorfia.
– Non sei di qui, vero? Altrimenti la sapresti. Dicono che è una leggenda, ma per me è tutto vero.
– Non mi vorrà dire che ancora si crede alle streghe, alla magia e via dicendo!
La donna fece per alzarsi, ma si bloccò:
– Ahi! La vecchiaia! – e si raddrizzò pian piano, tenendosi il fianco. – Il 21 dicembre di secoli fa venne bruciata una strega proprio qui – e indicò la base dell’albero. – L’avevano legata a un palo, avevano ammucchiato legna e dato fuoco. La notte di Natale, dal buco dove era piantato il palo venne su un albero strano, mai visto da queste parti, e alla Befana era già grande così. A primavera lo tagliarono e rinacque in una notte. Il vescovo andò a segnarlo e le foglioline nuove si seccarono subito. Chiamarono i soldati per tirarlo giù, e il comandante morì con la testa fracassata da un ramo che si era rotto. Allora lo lasciarono stare. Ogni cento anni, la notte di Natale viene una grande tempesta, un fulmine lo brucia, e dal ceppo rinasce ogni volta più bello di prima. Ci siamo! – e mi prese per il braccio. – I cento anni sono finiti! Forse fra tre giorni e tre notti… Ma tu stai male!
– No, niente, è il sonno…
– Macché sonno! – e mi diede una pacca sulla spalla. – È lei che ti ha baciato. Oggi è l’anniversario.
– Come? – Non so se riuscii a mascherare il tremito della voce.
– Ogni anno, di oggi, la strega sale sui rami e guarda giù. Quando vede passare un bel giovane lo attira qui sotto e lo bacia, e lui allora vede cose strane, ha caldo, sente urlare. Qualcuno è anche impazzito. Bella storia, eh? Forse non è vero niente, ma chissà. Io sono vecchia e a volte non so più se una cosa è vera oppure è una storia che mi hanno raccontato quando ero piccola. Ma facciamo finta che sia vero, tanto non costa niente! A Natale se ne raccontano tante, di storie. Ai bambini, e anche ai grandi, sai? Che freddo! Via! Copriti, ti ammali!
Toccò l’albero come se salutasse un amico e si allontanò con passo più vivace di prima, parlottando e canticchiando. Le borse le sbatacchiavano ai fianchi.
Sorrisi. Forse l’assurdità della situazione aveva agito su di me in modo paradossale. Forse fu la simpatia della gattaia, così somigliante a mia nonna. Fatto sta che ritrovai all’istante la voglia di indagare ancora. Mi feci forza e toccai l’albero con decisione.
Mi parve di udire un ululato lontano, indistinto, desideroso di prendere forma. Divenne una risata, prima enorme e rimbombante, poi leggera e sensuale.
Ecco un volto di giovane donna. Mi sorrideva, ammiccava, mi invitava a godere il suo corpo, che stava prendendo forma, sensuale, gocciolante, come appena uscito da acque primordiali.
Un urlo agghiacciante e la donna, ora rugosa e sdentata, fu avvolta dalle fiamme, sformandosi, dissolvendosi.
Poi, il nulla.
Ritirai la mano. Un vento gelido mi feriva il volto.
Toccai di nuovo il tronco. Non accadde niente. Riprovai calcando bene il palmo, in vari punti. Niente. Con ambedue le mani strinsi il legno quasi in un abbraccio e attesi a lungo. Niente. Alzai la testa e vidi solo un informe groviglio di rami neri.
Iniziai a tremare dal freddo. Mentre infilavo il giaccone udii un rombo familiare, ancora lontano. Infilai il vialetto di corsa, sbucai sul marciapiede e saltai sul bus, popolato dalle facce semiaddormentate di sempre.


Paolo Costantini

Nato nel 1966, ha avuto un bel po’ di fortuna. Quella di essere cresciuto in campagna da genitori di origine contadina, e quella di avere avuto un ampio spettro formativo: dalla musica (diploma di Conservatorio) alla scienza (lauree in Fisica e in Scienze dell’Informazione). Attualmente lavora come tecnico informatico presso un ente pubblico. Lettore onnivoro, deve ancora trovare qualcosa che non lo interessa.
Ha pubblicato racconti su antologie Delos Books


pescepirataCon Paolo, dopo una fugace conoscenza durante un corso di scrittura creativa in quel di Farfa (Rieti), ci siamo ritrovati all’interno di PescePirata : un forum letterario, dove si parla di libri, recensioni e letture; si fa scrittura creativa, giochi letterari e concorsi; si valutano romanzi, si collabora alla revisione e all’editing e si parla di tecnica, didattica ed editoria.


Queste le sue risposte ai nostri quesiti sul Natale.

1) Qual è il Natale che ricordi con particolare attenzione e perché?
Quello del 1994, perché pochi giorni prima ricevetti un telegramma con l’annuncio della vittoria a un concorso per dipendente pubblico.
2) Se potessi scegliere, cosa vorresti ti regalassero per Natale?
Un po’ di tempo.
3) Se pensi al Natale, quale racconto, romanzo o poesia ti viene in mente?
La poesia di Ungaretti che si chiama proprio “Natale”.
4) Non è Natale senza… continua tu.
… una triste sensazione di transitorietà cosmica.
5) Pandoro o panettone?
Lieve preferenza per il panettone

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