Misericordia

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Sembrava un cagnolino spaurito; se ne stava fermo dietro un bidone della spazzatura con lo sguardo dubbioso. Il vagabondo lo scrutava, mentre seduto sui gradini di un sagrato pizzicava le corde della chitarra e provava ad accordare il vecchio strumento.

– Vieni che ci facciamo compagnia – provò a dirgli, senza ottenere risposta, a parte una leggera inclinazione della testa che pareva dicesse: Ce l’hai con me? Ce l’hai proprio con me? Allora dalle tasche della giacca tirò fuori un pezzo di pane secco e glielo lanciò. Il cane rimase sorpreso da quel gesto, ma non si mosse.

– Non ti fidi proprio di nessuno – sussurrò a mezza bocca, non tanto per farsi sentire dall’animale, ma per convincere se stesso; forse non era il caso di insistere con quel cane.

Doveva pensare a mettere insieme qualche soldo se voleva mangiare. Piazzò alla base dei gradini un grosso bicchiere di carta, di un rosso sgualcito, dove si intravedeva a malapena la scritta Coca Cola e cominciò a strimpellare blowin ‘in the wind.

L’orario era quello solito dell’uscita dalla messa, cominciavano a vedersi i primi passanti che lasciavano qualche moneta. Ormai era diventato così esperto che capiva dal suono della caduta nel bicchiere di quale taglio si trattasse. I più spilorci lanciavano quei tre o quatto pezzi da 10 o 20 cent, che entravano nel bicchiere con un suono sbiadito. Era percettibile solo un lieve tonfo, quasi di plastica. E poi c’erano i generosi, allora si udiva il tintinnio inconfondibile dei due euro.

Messo insieme qualche spicciolo si avviò verso il forno all’angolo di via Roma. A mezzogiorno sul bancone spuntavano, disposti ancora caldi nella teglia, i calzoni ripieni di pomodoro e mozzarella. Quando il vagabondo li addentava il sugo come lava incandescente schizzava fuori e tutte le volte si ustionava il palato, ma l’ingordigia era più forte di lui, non sapeva resistere.

Per andare dai gradini del sagrato fino al forno passava davanti alla libreria Rigoni, dove lavorava Angelica. Non passava giorno che la ragazza non gli regalasse qualcosa: un panino, una coperta, dei giornali, una volta persino una saponetta.

– Ciao Roland – lo salutava la ragazza agitando le mani da dietro la vetrina, mentre riordinava una pila di libri.

Lui era per tutti Roland, ma quello non era il suo vero nome, l’aveva letto sulla chitarra e questo bastava per farlo riconoscere, il suo vero nome neanche lo ricordava più, tanto era il tempo passato senza usarlo.

Arrivato davanti alla cassiera del forno, mentre rigirava tra le dita i due euro, che sembravano ancora più luccicanti in confronto al nero delle unghie, si accorse di avere accanto quel sacco di pulci paraculo di cagnolino. Le orecchie penzolanti, il pelo ispido e riccioluto: nero, bianco (sporco) e di tutte le sfumature di grigio possibili. Scodinzolava paziente e sicuro che un pezzettino del calzone sarebbe stato anche suo.

E così fu.

Roland divise da buoni amici il calzone fumante.

– Ti chiamerò Birillo – disse, mentre un filo di mozzarella gli colava dalla bocca.

Graziella, la proprietaria del forno si aggiustò il berretto di carta che aveva in testa, sdegnata alzò il mento sbuffando alla vista del cane che sgranocchiava felice.

Prese un’altra focaccia la avvolse nella carta, la mise in un sacchetto di plastica e lo passò a Roland.

– Questa te la regalo io, mangiala solo te, mi raccomando; il sacchetto lo ha lasciato Angelica,  ci sono dentro un paio di banane, delle noci e anche dei fazzoletti profumati.

– Grazie – rispose Roland e uscì seguito da Birillo.

Tornò ai suoi gradini passando di nuovo davanti alla libreria, si affacciò per vedere se riusciva a ringraziare Angelica, ma lei era alle prese con una coppia di clienti che cercavano una guida turistica per Londra.

– Non è il posto per te, questo. – lo allontanò secco il Signor Rigoni: il titolare della libreria. Restava davanti all’ingresso, fasciato dal suo blazer blu e dietro i suoi spessi occhiali guardava schifato quel giovane con l’aspetto da vecchio. Mal sopportava la benevolenza nei confronti di quello squattrinato, perditempo, puzzolente di un barbone.

Nel parco vicino un gruppo chiassoso di ragazzi tirava calci a una palla con il fare spensierato che è figlio della giovinezza.

Le aiuole di piracanta, con i loro piccoli fiori bianchi a grappoli venivano falcidiati dai tiri dei ragazzi. In particolare Simone aveva nel piede destro una potenza spaventosa. Certo, i viali del parco con il loro brecciolino non erano il luogo adatto per manifestare la tecnica calcistica e i passeggini vicino alle panchine erano un grosso intralcio. Ma tutto ciò non sembrava essere di impedimento al divertimento dei ragazzi, che se ne infischiavano beatamente dei rimproveri della gente.

– Dai tira…vediamo cosa sai fare! – esclamava Giovanni piazzandosi con le gambe divaricate e leggermente piegate, pronto a parare un tiro di Simone.

Il collo del piede di Simone impattò sul pallone deformando per un attimo la sfera, tanto fu la forza impressa. La traiettoria all’inizio lineare, dopo aver superato le mani tese di Giovanni, andò a curvare e il pallone arrivò a colpire il povero Birillo.

La testa del cane sembrò quasi ruotare di 180 gradi; le zampe si agitavano nel vuoto, mentre guaiva dal dolore rotolando dai gradini del sagrato.

Roland subito corse per aiutare il nuovo amico, che era rimasto fermo, intontito dalla botta, ai piedi della chiesa, mentre il sangue gli colava dall’orecchio e la lingua ansimava dalla paura.

– Maledetti! Voi e il vostro pallone – urlò Roland. Prese la palla che aveva finito la sua corsa davanti ai suoi piedi e la infilzò sugli spuntoni del cancello del Sagrato.

Il sibilo di aria che fuoriusciva dal buco era l’unico suono che si sentiva.

Muti i ragazzi in piedi tra i viali del parco, in silenzio le nonne con i passeggini, anche il vento si era fermato tra le foglie delle aiuole.

Graziella uscì dal suo negozio e vide il vagabondo che lanciava quello che restava del pallone addosso a Simone.

– Ragazzacci – commentò la fornaia pulendo le mani nel grembiule; i biscotti nel forno l’aspettavano e rientrò, senza curarsi più di tanto di quello che era successo.

Anche Angelica corse fuori e vide Roland con in braccio il cagnolino; puliva il sangue raggrumato sul viso dell’animale con i fazzoletti di carta.

Simone ancora non si era mosso, si chinò e raccolse il pallone ridotto a un pezzo di plastica floscio e mormorò a denti stretti – questa me la paghi.

Birillo leccava le mani di Roland e sembrava essersi ripreso, la coda scodinzolava e al terzo fazzoletto profumato si divincolò dalla presa, saltò a terra e corse vicino alla chitarra. Cominciò ad abbaiare con insistenza contro i ragazzi che si erano avvicinati con cattive intenzioni. Sembrava volessero vendicarsi rubando la chitarra.

– Finitela e lasciatelo stare! Ve lo compro io un pallone, ma andate al campo a giocare – provò Angelica a convincere la banda di ragazzi.

Quelli allora si allontanarono, anche perché il Signor Rigoni, affacciatosi dalla libreria, li aveva minacciati: se non la smettevano avrebbe chiamato la polizia.

Dopo il trambusto Roland e Birillo, più amici che mai, si trasferirono su una panchina nel parco. Il vagabondo seduto sbucciava le noci e lanciava in aria i gherigli. Il cane, con salti da far invidia a un giocatore di basket, li addentava al volo, mangiandoli di gusto.

Qualche volta Roland bleffava e invece di lanciarli verso Birillo li ingoiava direttamente. Il tramonto arrivò presto e i due si preparano il giaciglio per la notte: una serie di cartoni e coperte che formavano una struttura a forma di “elle”, così da racchiudere la panchina.

Una bottiglia di vino conciliò il sonno, che non tardò ad arrivare.

Il barbone abbracciato al suo cagnolino dormiva della grossa, quando il gruppo di ragazzi tornò nel parco.

La luce fioca di un lampione illuminava pigramente la siepe accanto al riparo dei due e le stelle avevano fatto il loro timido ingresso nella scena.

– Dorme il pezzente – commentò sarcastico Simone che teneva in mano una tanica di benzina.

– Forse sente freddo – disse Giovanni.

– Dobbiamo aiutarlo poverino – concluse un altro dei ragazzi.

Simone cominciò a cospargere i cartoni di benzina, quando il fiuto di Birillo si ridestò e il cane, liberatosi dalla stretta di Roland, si avventò contro Simone, che lo colpì direttamente con un calcio.

Anche il vagabondo si svegliò e provò a togliersi di dosso cartoni e coperte, incespicando su se stesso.

Uno dei ragazzi lanciò un fiammifero acceso contro il ciarpame vicino alla panchina, in un attimo divampò e il fuoco si propagò fino al vagabondo, caduto a terra ancora intontito dalla sbornia. Presto Roland si trasformò in una torcia umana. Birillo guaiva mentre Simone continuava a colpirlo con la mazza che un compagno gli aveva passato; al terzo colpo giaceva immobile sul selciato. Il ragazzo continuava a bastonarlo, senza curarsi degli schizzi di sangue che provenivano dal cranio, oramai fracassato dell’animale.

Roland urlava dal dolore mentre le fiamme gli consumavano la carne. Una luce rossastra illuminava quell’angolo di parco. Le grida risvegliarono gli abitanti della zona; ante e finestre cominciarono ad aprirsi. Giovanni fu il primo a rendersi conto di quello che avevano fatto, guardava immobile la furia di Simone abbattersi sul cane. Un altro dei ragazzi gridò: – L’acqua…l’acqua della fontanella.

Simone, con il bastone ben saldo tra le mani, si accorse di Roland avvolto tra le fiamme supino a terra, come un fantoccio inanimato. Si girò verso Giovanni che sembrava una statua di sale e urlò:

– Scappiamo dai! Tutto il gruppo lo seguì e come fantasmi si dileguarono nell’oscurità della notte.

Qualcuno dai palazzi accanto era sceso giù in strada. Chissà da dove era spuntata una coperta, la gettarono sul corpo ormai senza vita del barbone. Con il passare dei minuti si era formato un capannello di gente intorno alla panchina, che polizia e vigili del fuoco fecero fatica ad allontanare. Le ultime sirene ad arrivare furono quelle dell’ambulanza, i ragazzi con la divisa a bande fluorescenti e la croce disegnata sulle spalle spingevano la lettiga, che sobbalzava avanzando tra i sassolini del selciato, mentre l’aria acre di bruciato penetrava le loro narici.

Mischiata tra la folla di curiosi c’era Angelica; riuscita a farsi largo fino a vedere cosa era rimasto del suo amico.

– Permesso, permesso sono una parente – diceva per farsi strada. Il Maresciallo dei carabinieri sentite le parole della donna le fece superare il nastro segnaletico a bande rosse e bianche messo a delimitare la zona incriminata. – Ci può aiutare a risalire all’identità? – le chiese mentre la scortava verso l’ambulanza.

Attorno alla lettiga uno degli infermieri sollevò la coperta, quel tanto che bastava a mostrare il volto del vagabondo. Il viso di Roland era una maschera irriconoscibile, poche ciocche di capelli rapprese facevano da contorno a ciò che restava della pelle, dove il rosso della carne viva si alternava a grosse pustole bianche, tutta la barba era sparita mangiata dal fuoco insieme alle labbra, si vedevano nella loro interezza i denti, fino all’inserzione delle radici, creando un ghigno mostruoso.

Una sola parola uscì dalle labbra della donna, mentre le mani le tenevano le guance e rigagnoli di lacrime scendevano lenti: Misericordia.

2 Risposte a “Misericordia”

  1. La scrittura è corretta, ma il tema non è nuovo e non ci sono molti elementi di novità. La mitezza del barbone, l’inoffensività del cagnolino da un lato – la crudeltà efferata del branco dall’altro: è una distinzione un po’ convenzionale che non permette al racconto di raggiungere una dimensione personale e interessante.
    Angelica, che è un personaggio promettente, alla fine con il suo “Misericordia” non è chiaro che posizione prenda sulla faccenda. Anche lei, probabilmente non lo sa, ma questa incertezza (se c’è) che poteva diventare un punto di forza del racconto, invece così resta inespressa.
    Nel complesso, insomma è un buon esercizio, ma ci sarebbe da lavorare parecchio.

    MI ha fatto piacere leggerti.

    Andrea

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