Downtown

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“Downtown, downtown”.
Avete mai giocato da bambini a far finta di parlare inglese? Io ci passavo un sacco di tempo. Così mi ripetevo quella parola che mi faceva troppo ridere.
“Downtown, downtown”.
Sembrava quasi uno scampanellio. Quello degli alberghi, nella hall, quando cerchi il portiere per avere le chiavi.
Ero in Canada per le vacanze, due settimane di soggiorno a Toronto per imparare l’inglese. Una vacanza studio, perché i miei genitori ci tenevano tanto a questa storia dell’inglese. Io avevo accettato. Due settimane all’estero da solo, quando hai sedici anni, non ti sembra vero. Nessun genitore che ti controlla, estrema libertà, massima pacchia, così pensavo.
– Vacanze Studio in Famiglia. Per vivere dall’interno l’esperienza quotidiana del paese che si sta visitando, con le sue abitudini, tradizioni e cultura, in famiglie giovani, simpatiche, ospitali e assolutamente affidabili per la loro serietà e moralità 
Così recitava la brochure. Avevo scelto il Canada per una certa idea di natura selvaggia che associavo a quel paese.
Dividevo la mia stanza con un ragazzo greco. Il suo nome era Eric. Alto biondo, non avresti mai detto che veniva da Corinto e neanche io ci ho creduto, fino al giorno in cui mi ha fatto vedere il passaporto. Eric Anastasopoulos era un tipo strano, per lo meno per quelle che erano le mie abitudini. Venivo da un quartiere periferico di Roma e non avevo conosciuto nessuno che facesse meditazione. Eric tutte le sere stendeva il suo tappetino blu, incrociava le gambe ed emetteva dei suoni gutturali. I suoi occhi fissavano un punto verso l’infinito, ma davanti aveva un divano, ricoperto di un stoffaccia rossa e lisa e sopra il divano un quadro raffigurante dei pescatori che al tramonto gettavano le loro reti. Dalla finestra, la luce gialla di un lampione dava un chiarore tremolante alla stanza,  pareva respirasse insieme ad Eric. Io ero in soggiorno che sbirciavo e dentro di me ridevo. Mi sembrava così buffa quella scena. Una volta avevo provato a dirglielo: “Dai Eric, smettila con ‘sta pagliacciata, andiamo a fare un giro”. Ma lui neanche mi aveva risposto.
La famiglia che ci ospitava si chiamava De Carlo. Era di origini italiane, abruzzesi per la precisione. Lei aveva più di cinquant’anni, ma possedeva lo sprint di una ventenne, ci teneva alla linea e andava in palestra tre volte alla settimana. Si poteva definire una bella donna, se non fosse stato per la pelle abbronzata, ma avvizzita, e le rughe che le segnavano il viso. Lui invece aveva la classica pancia gonfia da bevitore di birra; era perennemente a dieta, ma di nascosto si abbuffava di gelato.
Quel giorno mi trastullavo con il mio mantra infantile e sorseggiavo in cucina un bicchiere di Ginger-ale, aspettando Eric. Ero pronto per la serata con il gruppo del corso d’inglese. Il programma prevedeva una visita al centro della città: “downtown” appunto. Un passaggio rapido all’Air Canada Centre, con eventuale shopping delle magliette o altra paccottiglia dei Raptors, la squadra di Basket; infine salita alla CN Tower con cena a 360 metri di altezza. Da lì, nel ristorante che gira intorno all’asse della torre, si poteva avere una visuale di tutta la città, con la particolarità del pavimento di vetro che ti dava la sensazione di essere sospeso sopra lo Sky Dome.
Ci passarono a prendere intorno alle 17.00 con un pulmino, arrivammo dalle parti di Yonge Street e da li proseguimmo a piedi. Mentre camminavano lungo il viale, fui attratto da una serie di case basse e rosse, tanti villini a schiera con mattoni a vista. La nostra guida mi disse che erano vecchi alloggi universitari dei primi del novecento. I grattacieli in lontananza davano un certo non so che di misterioso e antico a queste case. Affacciata a una finestra c’era una cicciona di colore, che innaffiava il suo micro giardino. Eric iniziò a fare dei gesti con le braccia per attirare la sua attenzione, poi le chiese se la pianta che si vedeva al di là del muretto di recinzione fosse una Camellia sinensis. “Yea! Do you know it?” Rispose la cicciona sorridendo.
“Yea” confermò Eric.
La cicciona fece segno a Eric di entrare e lui lo fece a me. Così, senza che il capo-gruppo se ne accorgesse, ci staccammo dal resto della comitiva, per entrare in casa della cicciona.
Lei parlava e sorrideva, ma tralasciando le quattro parole d’inglese che conoscevo, non riuscivo a capire cosa dicesse. Invece Eric sembrava completamento a suo agio in casa di una sconosciuta. Si comprendevano a meraviglia. La cicciona ci fece segno di sedere e mise sul fuoco una teiera. Ogni frase che diceva era accompagnata da “Yea” e terminava in una risata. Avevo intuito che parlavano di erbe medicinali, per via di alcuni nomi noti anche a me. Nella sua cucina c’era un frigorifero e un fornello che formavano un unico mobile incastrato tra il lavandino e la parete. Lei faceva fatica a muoversi, si girò su se stessa, si chinò e da un cassetto tirò fuori una scatola di latta, di quelle per i biscotti. All’interno c’erano dei sacchetti di juta pieni di una specie di polvere color verde-marrone. Probabilmente dell’erba secca sbriciolata. Intanto la teiera aveva iniziato a fischiare. La cicciona prese un cucchiaio e versò la polvere contenuta nei sacchetti in una tazza, dove poi versò anche l’acqua della teiera. La tazza emanava un forte odore di agrumi, di mandarino forse. Ci invitò a bere, porgendoci la tazza sempre sorridendo. Io chiesi timidamente “Can I ‘ve sugar please?” Sia la cicciona che Eric risero. Pensai che era una conseguenza del mio pessimo inglese, ma lei mi rispose “No”.
Così disse. Semplicemente – No – senza essere contrariata, lo pronunciò dolcemente ma in maniera perentoria. Allora Eric mi spiegò che era tè verde, proveniente direttamente dal Giappone.
“Ah!” feci io, ma solo per darmi un contegno, come se avessi capito il collegamento Giappone – zucchero – tè
Poi la cicciona mi chiese conferma del fatto che ero italiano ed io risposi “Yes”. “Ah!” fece stavolta la cicciona. Quindi doveva esserci un rapporto tra l’Italia, il Giappone, lo zucchero e il tè che in quel momento proprio non riuscivo a comprendere.
Comunque, anche se rimasi un po’ malfidente bevvi quella specie di tisana, copiando Eric e la cicciona. Tenevano la tazza con tutte due le mani, avvicinavano lentamente la tazza alle labbra, soffiavano e poi un sorso alla volta bevevano.
Anche io bevvi, ma non successe niente, solo mi sembrò un po’ amaro.
La cicciona, che poi venni a sapere si chiamasse Mrs. Webster, offrì uno dei sacchetti che stavano nella scatola di latta ad Eric. Mentre a me, che all’epoca ero magrolino, regalò dei biscotti fatti in casa, ripieni di pezzetti di cioccolata, di un buono che non scorderò mai. Quando me li consegnò, al momento del congedo, mi abbracciò e mi disse nella sua lingua – Presto imparerai, perchè hai fame di conoscenza –
“Che cosa imparerò?” le chiesi, ma lei sorrise. Pensai non avesse capito perchè avevo parlato in italiano. Ma senza che aggiungessi neanche una parola Eric si girò verso di me e con naturalezza mi spiegò che era una sensitiva e sicuramente aveva avuto una visione.
Provai allora a chiederle di nuovo (stavolta utilizzando il mio inglese scolastico) se la frase era corretta e cosa intendesse lei per imparare.
-Trovare il centro, la via che conduce al centro –
Anche questo disse in inglese, senza una particolare espressione del volto, sempre sorridendo.
Ci abbracciò di nuovo mentre ci accompagnava alla porta.
Eric mi disse che nel sacchetto c’era un estratto di genziana per i De Carlo, avrebbe aiutato lui ad eliminare la pancia gonfia.
Poi successe una cosa strana, Eric inizio a tossire, si lamentava di un dolore al braccio, d’un tratto il colorito della sua pelle divenne pallidissimo, disse che si sentiva mancare e si accasciò sul marciapiede.
Non so come mi è venuto, ero veramente poco più di un bambino, mi ricordo che il palazzo di fronte era in costruzione, travi di legno e operai che lavoravano, ma non chiamai nessuno, almeno all’inizio. Provai a fare un massaggio cardiaco ad Eric. Vicino a noi era parcheggiata una moto italiana, una Guzzi California. Il proprietario era un medico e arrivò proprio nel momento più giusto. Mi chiese cosa stava succedendo, io risposi in italiano: “Sta male, non lo so, mi è svenuto davanti”. Lo dicevo affannato e con le lacrime agli occhi, mentre rimanevo chino sopra di lui, nel disperato tentativo di rianimarlo. Il medico con fare brusco mi spinse via ed iniziò a praticare correttamente il massaggio cardiaco. Poi dalla giacca tirò fuori un telefono e mi disse “Guaglio’ chiamma ‘o 911”, Così feci e in poco tempo arrivò un’ambulanza che portò Via Eric.

Così mi ritrovai solo e spaventato e dovevo in qualche modo arrivare alla CN Tower, Downtown di Toronto, per ricongiungermi con il mio gruppo e comunicare anche l’accaduto.
Ripensai alle parole di Mrs. Webster e quasi mi venne da ridere – Imparare a trovare la via che conduce al centro – non era stata una profezia per il futuro.

2 Risposte a “Downtown”

  1. Nel tuo racconto hai descritto bene le incomprensioni e difficoltà linguistiche. 🙂
    Leggendo l’incipit mi è venuto in mente che a volte si parla in finto inglese anche da adulti, e non solo per gioco come da bambini o come nella sorta di grammelot delle canzoni di Little Tonty. Un saluto

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