La neve continua a scendere

La neve continua a scendere

Photo by Roberto Di Veglia

Sorseggio il caffè e tutti i rumori sono ovattati, anche il battito del mio cuore si fa più lento.

Apro la finestra, allungo un braccio: sento il contatto leggero, freddo, soffice del fiocco di neve che diventa goccia d’acqua; si trasforma sulla pelle e rimane in bilico, per poi scendere.

Nel cortile un gatto cammina lesto, vuole mettersi al riparo. L’aria è pungente; meglio chiudere.

Quando nevica è festa per i bambini. Già sento le voci: «Scappa che ti prendo… papà facciamo il pupazzo di neve?».

E’ il mio cortile. Quello in cui sono cresciuta, dove ho imparato ad andare in bici, dove mi sono sbucciata le ginocchia cadendo con i pattini. Il nascondiglio segreto delle mie confidenze da adolescente. Il posto del mio primo bacio. Mi mancherà? Mi domando con il naso schiacciato alla finestra. Il fiato si condensa sul vetro, con le mani ci disegno sopra un omino.

Se continua così dovrò rimandare la partenza. Tanto meglio, mi dico. Avrò più tempo per i saluti. Volevo proprio passare dalla signora Piera. In fondo non tutti i mali vengono per nuocere. La nonna me lo ripeteva spesso da bambina. Mi era sempre sembrata una frase senza senso; frutto di un cristianesimo per il quale le sofferenze sono un dono.

Come giudicavo ridicole quelle litanie, quelle parole ripetute: “Ave Maria piena di grazia, il Signore è con te”. Il saluto di un angelo. Lo stesso angelo che aveva permesso quello schianto. Le grida, le sirene, la corsa affannosa e inutile in ospedale.

Mi rivedo seduta sulla panchina del pronto soccorso in attesa del responso. Era mio marito. Eppure non piansi. Ricordo le mani di mia madre, gli occhi spenti e la dolcezza di mia nonna. Quella volta non disse niente.

Io sì! Urlai.

Urlai tutto il mio dolore. Urlai il suo nome.

Da allora non guido più.

Ne ho versate di lacrime, da allora.

Ne ho versato di Martini.

Era diventato la mia consolazione. Fino a specchiarmi in quel bicchiere e vedere il viso deformato, il trucco esagerato, le risate sguaiate.

In fondo è stato facile trovare altri disposti a scaldare il mio letto; a scambiare una sigaretta, a condividere una bottiglia.

Oggi è tutto diverso, nel mio cuore, a poco a poco si è fatta spazio una nuova sensazione che non so spiegare. Somiglia tanto alla neve che continua a scendere, E’ quasi impalpabile. E’ una gioia che non si gonfia, non è euforia. É una gioia debole, non cerca il suo interesse. E’ una gioia paziente, non tiene conto del male ricevuto. E’ una gioia che tutto copre, tutto sopporta.

E’ la neve; come durante quell’incontro con Don Giacinto.

Era febbraio nella comunità di recupero. Non ho mai saputo spiegarmi cosa è successo. Ricordo solo tante lacrime. Un fiume di lacrime che trascinò via la mia ansia di vivere. Quella confessione è stato qualcosa di molto simile a un abbraccio.

Oggi mi sento pronta. E’ il giorno giusto. Forse è proprio la neve, ma finalmente ho trovato il coraggio di raccontare a papà la mia decisione.

Nella stanza accanto sento dei rumori, mi affaccio e lo vedo spostare una sedia, una di quelle antiche, con la seduta intrecciata a mano. L’avvicina all’armadio e ci sale sopra. In punta di piedi allunga la mano per recuperare una vecchia valigia. E’ giù in fondo, nascosta dietro la decorazione centrale. Sta per prenderla, l’afferra ma si protende troppo; non riesce a trattenerla. La valigia rimane tra le sue mani una frazione di secondo, poi con tutto il suo contenuto frana sul pavimento.

Lui scende dalla sedia; si tuffa alla ricerca di un pacchetto. Lo trova e soddisfatto si dirige verso di me.

«Carla, hai fatto il caffè?»

«Buongiorno, ben alzato» gli sorrido e insieme andiamo in cucina.

«Cosa stavi facendo di là? Ho sentito dei rumori» dico, mentre verso il caffè e prendo tempo per trovare le parole giuste.

«Ho tirato giù dall’armadio la valigia della mamma».

I nostri sguardi si incrociano.

Mi allunga un pacchetto di buste avvolto da un elastico.

«Sono le lettere che ho scritto a tua madre, quando ero militare»

«Perché, papà?»

«Non lo so il perché, ma vorrei che tu le leggessi. Da quando sei tornata ti sento strana»

«Papà, anche io volevo farti leggere una cosa»

«Cosa, Carla?»

«Conosci quel brano del Vangelo di Giovanni in cui Gesù chiede a Pietro se lo ama?» «Certo, che lo conosco» risponde il padre con aria saccente «Glielo chiede per ben tre volte, tanto che alla fine Pietro è un po’ rattristato»

«Ha mai letto la versione in Greco?»

«No, cosa ha di speciale?»

«Se la leggi con attenzione ti accorgi che Gesù le prime due volte chiede a Pietro – mi ami tu? – e Pietro risponde sempre – lo sai che ti voglio bene»

«Ebbene?»

«La terza volta Gesù invece chiede – mi vuoi bene tu?»

«Sì, e con questo?»

«Vedi, papà, Pietro non riusciva a dire che lo amava; cosi Gesù non gli chiede più – mi ami tu? – gli basta un semplice – mi vuoi bene tu? – Ecco, io penso che la stessa domanda è stata fatta me.»

Il padre ripone la tazzina sul tavolo; la fissa perplesso. «Cos’è che vuoi dirmi?»

«Ho deciso di andare in un convento; iniziare un noviziato per diventare suora»

«Cosa?»

«Sì, hai capito bene. Ci sono già stata per una settimana. Si trova dalle parti di San Gimignano è un convento di clausura»

«Un convento? Di pazzie ne hai sempre fatte tante, ma questa poi! Cosa pensi di trovare in un convento di clausura?»

«Sto cercando la verità, papà.»

«Quale verità? La stessa che cercavi in una bottiglia. La verità che ti ha portato a vivere con quella massa di sbandati.»

«Forse sì, papà; la stessa verità»

«Mi dispiace, ma non riesco a immaginarti in un convento; di clausura poi! Tu, che vuoi diventare suora. Tutto il giorno a pregare. Tu… ma se da bambina non venivi mai a messa. Eri la contestatrice, la rivoluzionaria»

«Quella ragazzina ora non c’è più. Ho fatto tanti errori, ma senza la verità siamo nulla. Capisci cosa intendo?»

«No, Carla, non capisco. Forse non ti abbiamo mai capito!»

«Il cuore mi dice che comprenderai. Per adesso parto per andare in convento a fare il noviziato. E’ solo l’inizio del cammino, papà».

La finestra riflette la mia silhouette. Mio padre non riesce a bere il caffè, rimane muto sulla sedia; mi osserva e non sa se sorridere o piangere. Io guardo fuori, dove la neve continua a scendere. Tutto copre, tutto sopporta.

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