Avorio

[getty src=”129796274″ width=”507″ height=”338″]

Era una mattina limpida quella, anche se al porto le bandiere delle navi ormeggiate mostravano chiaramente vento da ponente. Soffiava un Libeccio foriero di tempesta.

Benjamin Stoller sulla banchina guardava oltre il confine tra cielo e mare, immerso nei sogni fantasticava di avventure in Africa, si immaginava esploratore o cacciatore dei grandi predatori africani.

La banchina era tutto un brulicare di attività, container di merce depositate alla rinfusa pronti per essere imbarcati. Navi con i boccaporti aperti le cui stive venivano riempite o svuotate, a seconda se erano in partenza, oppure appena attraccate. Sirene che suonavano e marinai al lavoro che gridavano frasi incomprensibili a Benjamin.

Il ragazzo aveva circa diciassette anni, l’età  in cui la vita è un grande negozio di giocattoli e non sai quale scegliere, attendeva con il padre l’arrivo della Harmony of the seas e del suo carico di avorio proveniente dall’Africa subequatoriale. Una parte di quella merce era già  stata acquistata dalla loro ditta: la Stoller & Sons di Londra, fabbrica di pianoforti.

La struttura portante di un pianoforte si costruisce a partire dalla fascia interna. Devi applicare una traversa frontale, sulla quale monti un giunto metallico e poi inserisci delle barre di rinforzo che collegano i vari punti con incastri a coda di rondine. Ci vuole precisione. La cura e l’attenzione nell’inserimento delle giunture assicurano resistenza e solidità  allo strumento.

Cosi Adam Stoller spiegava al figlio come voleva fosse un pianoforte: solido e resistente. Questa volta aveva portato anche Benjamin all’arrivo del carico. Gli insegnava a controllare i pezzi singolarmente. Verificava con maniacale dedizione le lastre di avorio utilizzate per la produzione dei tasti. Le zanne dell’elefante dovevano essere tagliate nel senso della lunghezza, perché quelle ricavate in senso trasversale s’incurvano in modo irregolare, cosa che Adam non sopportava. Il suo strumento doveva essere preciso in ogni dettaglio.

Accanto al laboratorio degli Stoller c’era il salone per la vendita, dove l’acquirente poteva testare la bontà  di quanto realizzato dalla ditta, c’erano diversi pianoforti, sia a muro che a coda .

Quella mattina in giro per Londra camminava fischiettando Jerry Sugar Raimondini, un italo-americano che aveva portato la sua band in tournée in Europa. La Fama dei pianoforti Stoller era arrivata anche nel nuovo continente e così Jerry aveva progettato di andare a curiosare nella bottega degli Stoller.

Seduto sullo sgabello Raimondini si decise a provare uno degli strumenti in vendita. Le dita tozze e sgraziate si muovevano veloci sulla tastiera colpendola ritmicamente. Il Vecchio Stoller rientrato dalla consegna al porto era disgustato dai suoni che provenivano dal pianoforte, un miscuglio vigoroso e demoniaco, che per il suo gusto si avvicinava al fracasso.

Il ciuffo impomatato di Jerry ondeggiava seguendo le mani, in una danza oscena, che allo Stoller ricordava l’atto sessuale. Raimondini era rapito dal contatto con i tasti del piano che allo stesso tempo carezzava e percuoteva. Non era alto ma la sua figura imponente si stagliava sul pianoforte a coda formando una forma unica, una specie di chimera, metà  uomo, metà strumento musicale, una sorta di enorme satiro che al posto delle zampe di caprone aveva le eleganti gambe in legno di abete, laccate di un nero lucido, scelto meticolosamente da Adam Stoller tra circa venti varietà  di nero.

Una mano portava il tempo mentre l’altra produceva una melodia e contemporaneamente i piedi picchiavano i pedali prolungando, diminuendo o amplificando il suono. Nell’insieme seppure all’apparenza sgraziata quella musica aveva qualcosa di coinvolgente e ti risuonava nel corpo come i cerchi concentrici di un sasso gettato in uno stagno. Era impossibile stare fermi.

Benjamin non aveva mai sentito niente di simile, non era la leggerezza lirica di Chopin, o la forza teatrale di Bach, né la genialità  di Mozart.

– Che cosa era? – Senza parlare, ma solo con lo sguardo, rivolse l’interrogativo al padre, mentre si lasciava andare a un applauso.

– Musicaccia americana, la musica che i negri suonano nei bordelli, non é degna di essere chiamata musica.

Sentenziò il Vecchio Adam Stoller, per niente entusiasta di quello che aveva sentito a differenza di Benjamin, che invece volle conoscere Raimondini.

– La vostra musica mi ha colpito, non avevo mai sentito niente del genere. Dove avete studiato signore? Questa musica ti dà  i brividi e allo stesso tempo ti senti bruciare dentro come un carbone ardente. Eppure c’é della precisione nel contrappunto che ho sentito da voi stamane, come vi chiamate?

Questo avrebbe voluto dire Benjamin, mentre andava incontro al sorriso indisponente dell’italo-americano; invece balbettò un: … ma…ma …cos’era questa musica?

– E’ il Jazz! Ragazzo – disse Raimondini, alzandosi dallo sgabello.

Poi si avviò verso la porta, si aggiustò il nodo delle cravatta, senza salutare uscì, e come il libeccio del mattino sconvolse per sempre la vita degli Stoller.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato.

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.